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Al fondo del porticato è la statua di Maria Immacolata. Don Bosco l'aveva collocata in una nicchia presso la sacrestia del grande Santuario. A Giovanni Cagliero, nel 1862, Don Bosco disse: Maria SS. è la fondatrice, e sarà la sostenitrice delle nostre opere (MB 7, 334).
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Torino è la città dei portici. Sono necessari per potersi muovere nel lungo inverno. Anche Don Bosco volle ampi portici nei suoi fabbricati; ma sui pilastri e nelle lunette degli archi egli fece scrivere frasi bibliche per richiamare a ragazzi e visitatori le verità eterne.
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È ancora al suo posto dopo 140 anni, la fontana di quei primi tempi. Qui i ragazzi venivano a bagnare la pagnotta della colazione e della merenda: l'acqua era il solo companatico. Nel 1867, fissandola, Don Bosco disse a Luigi Costamagna: Avrei bisogno che buttasse marenghi. Così potrei salvare la gioventù povera e abbandonata in tutto il mondo (MB 8, 906).
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D nuovo edificio fu iniziato nell'autunno inoltrato del 1852. Si procedette a tutta forza, ma presto cominciò il brutto tempo. L'acqua diluviò per giorni e notti — scrisse Don Bosco. — Nella mezzanotte del 2 dicembre si udì un rumore violento. Erano le mura che cadevano rovinosamente. Don Bosco disse ai ragazzi: È uno scherzo del diavolo. Con l'aiuto di Dio e della Madonna ricostruiremo tutto. Ciò si verificò puntualmente nell'estate 1853. I ragazzi poveri premevano alle porte dell'Oratorio. Ne furono accettati 32 nel 1852, 76 nel 1853, 115 nel 1854. A questo punto Don Bosco fece un altro atto di coraggio. Al posto della vecchia casa Pinardi elevò un nuovo edificio a tre piani. Nel 1860 furono così accettati 470 ragazzi interni.
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Incoraggiato dai sogni che gli spalancavano il futuro, Don Bosco investì capitali ingenti per ampliare la sua opera. Costruì nel 1851-52 la chiesa di S. Francesco di Sales, e un nuovo fabbricato accanto alla casa Pinardi nel 1852-53. Unica sua fonte di finanziamento: la Provvidenza.
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Dal 1846 al 1851 l'opera di Don Bosco si estese. Alla tettoia Pinardi (A) si aggiunse la casa Pinardi (B) dove Don Bosco nel 1851 ospitava ormai una trentina di giovani interni. Essi, con i ragazzi dell'Oratorio, giocavano in cortili sempre più vasti (C, D, F). Mamma Margherita aveva trasformato in orto un vasto tratto di prato: vi piantava lattughe e pomodori per arricchire la poverissima mensa dei ragazzi (E).
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1848. È l'anno frenetico del Risorgimento e della prima Guerra d'Indipendenza. I preti sono odiati come nemici della patria. Un giorno, mentre facevo catechismo — scrisse Don Bosco, — una palla d'archibugio entrò per la finestra e mi strappò la veste tra il braccio e le coste, facendo largo guasto nel muro (MO 205). Una lapide ricorda il fatto drammatico.
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Don Bosco andò in convalescenza ai Becchi. Tornò il 3 novembre non più solo, ma accompagnato da mamma Margherita. A 58 anni questa anziana contadina divenne la mamma dell'Oratorio.
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A custodirla, Don Bosco comprò questa statua della Madonna Consolata. Non è in legno né di metallo, ma di umilissima cartapesta. Sotto i suoi occhi, Don Bosco lavorò per i ragazzi fino all'esaurimento. Rischiò di morire la prima domenica di luglio. Guarì per le preghiere dei suoi ragazzi, e promise davanti alla Vergine: La mia vita la devo a voi, ma siatene certi: la spenderò tutta per voi.
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Il 12 aprile 1846, solennità di Pasqua, si prese possesso alla misera tettoia convertita in chiesa. È ancora qui, quella tettoia, rannicchiata in fondo agli edifici di Valdocco, oscuro e piccolo ceppo da cui si è sviluppato tutto. Ora è una cappellina ricca di fregi e lapidi, ma allora era solo una tettoia bassa. Un muretto tutto intorno la trasformava in una specie di baracca. Per 320 lire, la tettoia e la striscia di terra intorno divennero la sede stabile dell'Oratorio.
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Casa Pinardi aveva la facciata rivolta a mezzogiorno. Misurava 20 metri di lunghezza e 6 di larghezza, quasi 7 di altezza. A metà circa della facciata si apriva una stretta porta d'ingresso, e, accanto, era fissata al muro una vasca di pietra con una pompa che gettava acqua fresca e abbondante. Dietro questa abitazione era appoggiata la tettoia trasformata in cappella, utilizzata dal 1846 fino al 13 giugno 1852.
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Don Bosco e il suo ambiente: Tutto Valdocco
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Dai Becchi a Valdocco Le origini
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A gruppi si alternavano dal mattino sino alla più tarda sera davanti a questo quadro, pregando Maria che conservasse in vita il loro amico e padre amatissimo. Accendevano lumi, ascoltavano Messe, facevano Comunioni. Taluni vegliavano in orazione buona parte della notte. Alcuni fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno, non pochi per tutta la vita. Parecchi digiunarono in quei giorni a pane e acqua, e promisero di digiunare per mesi e anni, se Maria restituiva in salute il loro caro Don Bosco. E Maria si mostrò Madre veramente sensibile e consolatrice: Don Bosco si ristabilì. Alcuni giovani andarono a prenderlo al Rifugio, e osannanti lo portarono sopra un seggiolone a Valdocco, gridando con pieno entusiasmo: Viva Dio! Viva Maria Consolatrice, che ci ha davvero consolati! (MB 2, 493).
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Don Bosco sta per morire! La notizia si sparse come un fulmine tra i sacerdoti suoi amici e i giovani. In quei giorni si vide quanto fosse amato. La chiesa della Consolata divenne meta di un ininterrotto pellegrinaggio di giovani che si alternavano per chiedere alla Vergine la salvezza del loro grande benefattore.
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La domenica successiva, il giorno di Pasqua del 1846, i giovani si trasferirono alla tettoia Pinardi. La cappella consisteva in uno stanzone lungo da 15 a 16 metri, e largo da 5 a 6. Aveva per pavimento un palchetto di legno, costruito in fretta e collocato alla meglio. Il soffitto era di stuoie intonacate di gesso. I ragazzi proruppero in una esplosione di gioia e di preghiera (cf MB 2, 428s). I collaboratori di un tempo ritornarono; ma i sospetti e le difficoltà delle autorità non diminuirono, anzi furono mandate delle guardie a vigilare. I giovani da quel momento presero ad aumentare la presenza, assistiti sempre più e meglio. Questa modesta cappella semibuia fu testimone di piccoli e grandi fatti. Lo spazio a disposizione e le attrezzature aumentarono con l'affitto della casa. Ma se la situazione sembrò migliorare, la salute di Don Bosco peggiorò fino a far temere della sua vita.
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Ma arrivò anche lo sfratto dei fratelli Filippi, preoccupati per l'erba del loro prato (cf MB 2, 404). Il 5 aprile 1846, Domenica delle Palme, fu per Don Bosco un'agonia da Getsemani. Si appartò dai suoi amici, e quando si sentì solo ruppe in singhiozzo (cf MB 2, 422). Ma proprio nel momento di maggiore abbattimento un ometto di nome Pancrazio Soave gli balbettò un invito: Venga a vedere una casa per il suo laboratorio. Don Bosco lo seguì rincuorato. Trovò soltanto una povera tettoia, bassa, appoggiata sul lato Nord della casa Pinardi e con un muretto tutto attorno che la trasformava in una specie di baracca. Serviva come magazzino a un cappellaio e alle lavandaie. Don Bosco fu sul punto di rifiutare. Ma quando Pi-nardi capì che Don Bosco voleva farne una cappella, fece delle grosse promesse: scavare il terreno di 50 cm, fare il pavimento di legno, fornire la tettoria di porte e finestre, il tutto in una settimana. Don Bosco gli diede 320 lire di affitto.
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Il pellegrinaggio alla Madonna di Campagna aveva dunque avuto il suo frutto. Don Bosco aveva spiegato ai ragazzi il perché di quel pellegrinaggio e aveva infuso in loro una grande fiducia. Così farà sempre, nelle molte necessità in cui si verrà ancora a trovare. Quando i ragazzi, che procedevano recitando il rosario, imboccarono il viale che dalla strada maestra porta al convento, le campane della chiesa presero a suonare a distesa. Fu una lieta sorpresa per tutti, ma la meraviglia fu ben più forte quando si sparse la voce che le campane si fossero messe a suonare da sole. Infatti nessuno aveva ordinato di suonarle, e non si riuscì mai a sapere chi Io avesse fatto. Il santuario fu distrutto dai bombardamenti nel 1944, ma il campanile e le campane sono ancora quelle che accolsero festosamente i birichini di Don Bosco (cf MB 2, 419-420).
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Sballottato dall'insensibilità umana ma guidato dalla Provvidenza, Don Bosco era ormai giunto vicino al posto in cui aveva ripetutamente visto la Madonna che gli indicava la sede stabile della sua Opera, con chiese e scuole affollate di giovani e di chierici. Hic domus mea, inde gloria mea, aveva detto la Vergine (qui la mia casa, di qui la mia gloria). E l'apostolo dei giovani trova in questa visione la forza di continuare, nonostante le gravi difficoltà (cf MS 2,343-344; 400-407; 408-412; 416).
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Mentre già spirava aria di un novello sfratto, per entusiasmare i giovani a non abbandonare l'Oratorio Don Bosco organizzò una passeggiata a Superga che fece epoca. Dopo la Messa al santuario della Consolata, i giovani, forniti di abbondanti cibarie, si misero in cammino cantando allegramente, con l'accompagnamento di alcuni strumenti musicali: un vecchio tamburo, una tromba, un violino e una chitarra scordata. Il parroco di Superga aveva mandato un cavallo bardato ai piedi della collina, e Don Bosco lo cavalcò attorniato dai ragazzi; la loro allegria salì alle stelle. Giunsero in cima stanchi e affamati e trovarono un'ottima refezione preparata dal parroco e dal rettore del santuario. Dopo la funzione del vespro, durante la quale i cantori meravigliarono i presenti per la bellezza dei loro canti, furono lanciati alcuni palloncini. Poi tutti, sempre a piedi, se ne tornarono allegramente a casa (cf MB 2, 378-382).
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Ma ai primi di marzo del 1846 ci fu lo sfratto anche da casa Moretta. Don Bosco si trovò nuovamente sul lastrico per le vie di Torino. Non si perse d'animo. La primavera era alle porte e lì, a pochi passi, si trovava un vasto prato appartenente ai fratelli Filippi. Presolo in affitto, cominciò a radunarvi i suoi giovani, che ben presto superarono i 400. Il prato si trasformò in un'immensa scuola, chiesa, palestra. Tutto all'aperto, anche le confessioni. Ed era uno spettacolo che molti andavano a godersi e dove tutti erano bene accolti (cf MB 2, 373-376; 383-386).
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La Provvidenza non lo abbandonò. Saputo che il sacerdote Moretta era disposto ad affittare alcune stanze di una sua casa in Valdocco, Via Cottolengo, Don Bosco non si lasciò sfuggire l'occasione. Affittò tre stanze e immediatamente riaprì le sue scuole serali e domenicali per le quali ottenne l'aiuto di Don Carpano. Duecento allievi, stipati in quelle stanze, imparavano a leggere compitando sui cartelloni murali. Per quei tempi era un metodo rivoluzionario, e non mancarono le insinuazioni maligne e le opposizioni (cf MB 2, 345-351).
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Quello di Don Bosco era proprio un oratorio vagante. I palazzi di cui andava fiera la città di Torino non potevano accogliere i suoi birichini. Anche dalla periferia lo si scacciava. Dove trovare una sede per tanti giovani nella rigida stagione invernale che incalzava? Le case, i cortili, le chiese dei sogni non erano ancora una realtà (cf MB 2, 314-344). Così l'Oratorio peregrinava per le vie di Torino, spostandosi di piazza in piazza.
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La domenica, dalla piazza dei Molini, Don Bosco guidava i suoi ragazzi a qualche chiesa appena fuori Torino: a Sassi, alla Madonna del Pilone, al Monte dei Cappuccini... E là meravigliavano la gente e i religiosi per il loro contegno devoto durante la Messa e per il gran numero che si confessava e si comunicava (cf MB 2, 339s). Usciti di chiesa Don Bosco distribuiva pane e companatico e i ragazzi davano inizio a divertimenti animatissimi che duravano fino a sera.
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Dopo pranzo, fatto catechismo, Don Bosco conduceva le sue schiere al di là del ponte Mosca, presso la riva della Dora, e li faceva scendere in uno di quei campi incolti che si estendevano a sinistra di chi entra in Torino. Qui dava a ciascuno un'abbondante porzione di pane e frutta o di carne salata e, distribuiti i vari giochi (bocce, piastrelle, stampelle e corde per i salti), si cominciava la ricreazione che si protraeva fino a sera. Don Bosco li assisteva amorevolmente.
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Porta Palazzo era ed è tuttora una piazza tipica di Torino, dove venditori e compratori si incontrano per ogni genere di commercio. Anche Don Bosco la frequentava, e sovente riceveva doni per i suoi birichini, che anche là si radunavano. Colui che prepara il nido agli uccelli non ci dimenticherà , aveva detto ai giovani nel lasciare la chiesa dei Molassi. I trecento amici gli si stringevano intorno con fiducia. Ma la realtà era ben dura. Ai giovani non restavano ormai che alcune piazze di Torino come luoghi di convegno e i prati oltre la Dora per giocare (cf MB 2, 338-341).
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Radunati per la prima volta i ragazzi nella chiesa di San Martino ai Molini, Don Bosco per incoraggiarli aveva fatto la predica dei cavoli: I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati, non fanno bella e grossa testa. Così è del nostro Oratorio trasferito da un luogo all'altro. Ma era scritto che il trapianto non fosse terminato. Dopo due mesi di relativa tranquillità, la vivacità dei ragazzi e il loro chiasso infastidirono i mugnai, i carrettieri e gli impiegati municipali. Mossero lamentele al municipio, dipingendo Don Bosco come una specie di capobanda di monelli sfaccendati e pericolosi. Il segretario dei Molini giunse a scrìvere una lettera calunniosa al municipio. Le calunnie risultarono del tutto infondate, tuttavia a Don Bosco fu tolto il permesso di tenere l'Oratorio in quel luogo. Fu costretto a proibire i giochi, mentre continuava a radunare i ragazzi nella chiesa di San Martino. Il 15 novembre 1845 ci fu lo sfratto (cf MB 2, 306; 310.336) e il 22 dicembre fu l'ultima volta che i giovani pregarono in quella chiesa (cf MB 2, 341).
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Non era cosa facile, ma si riuscì, grazie all'interessamento di Don Borei. Il municipio concesse per tre ore la settimana la chiesa di San Martino ai Molini Dora (Molassi; cf MB 2, 303s). Ma al grande entusiasmo per il trasloco subentrò ben presto la delusione causata dalla mancanza di spazio e, ancor più, dalla opposizione dei vicini che non gradivano il chiasso dei ragazzi. Fu proprio qui, durante la permanenza ai Molassi, che Don Bosco s'incontrò con Michelino Rua, che sarà il suo braccio destro e il suo primo successore.
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Là c'era una chiesa, un ampio cortile con porticato e un cappellano disposto ad accoglierli. Il 25 maggio 1845 ci fu un trasloco assai movimentato, ma la sosta fu di un solo giorno. La chiassossità dei giovani irritò la perpetua del cappellano, e furono cacciati. L'Oratorio dovette cercarsi un altro ambiente (cf MB 2, 287-294).
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A causa delle intemperanze giovanili, la Marchesa di Barolo si era ripetutamente dimostrata contraria alla presenza dei giovani nei locali dell'ospedaletto. Don Bosco si diede da fare per avere un'altra sede. La trovò presso il cimitero di San Pietro in Vincoli.
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I ragazzi e i giovani che si radunavano attorno a Don Bosco erano troppo maleducati e chiassosi per coloro che non sapevano andare oltre le apparenze e le prime impressioni. Era perciò naturale che chi non era animato dal suo zelo apostolico non li accettasse volentieri come vicini di casa. Su questa mappa percorriamo i vari spostamenti, segnati con cerchietti rossi, fatti nel giro di soli due anni (1844-1846) dai giovani dell'Oratorio.
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L'opera svolta da Don Bosco era veramente qualcosa di inaudito. I suoi grandiosi progetti per l'avvenire erano poi tali da lasciare sconcertati anche i più ottimisti e ricchi di fantasia. Ci fu chi cominciò a dubitare del suo equilibrio mentale. Parecchi amici e collaboratori lo abbandonarono (cf MB 2, 412; 416). Due zelanti canonici tentarono anche d'inviarlo al manicomio. Ma Don Bosco, intuendo le loro intenzioni, riuscì a spedire loro stessi, almeno per qualche ora... Ciò bastò per rassicurare molti sulla stato della sua salute mentale. Per questo vicolo passò la carrozza nella quale erano stati rinchiusi i due canonici troppo zelanti (cf MB 2, 414-416).
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Come alloggio, la Marchesa aveva assegnato a Don Bosco un'ampia stanza al secondo piano del Rifugio che vediamo in questa inquadratura. In mancanza di locali più adatti, i ragazzi, fin da quella prima domenica, si installarono nella sua camera, prendendo posto un po' dappertutto; sul letto, sul tavolino, sul davanzale della finestra, per terra... occupando nelle domeniche seguenti, essendosi aggiunti anche parecchi ragazzi della zona, il corridoio e le scale... Per la Messa li conduceva generalmente alla chiesa della Consolata, e nelle giornate buone, in qualche chiesa più lontana, come al Monte dei Cappuccini, a Sassi, alla Crocetta. Attraversavano le vie della città cantando e pregando, tra la meraviglia dei passanti. Tuttavia, a causa della ristrettezza dei locali, la situazione divenne ben presto inadeguata e Don Bosco decise di recarsi dall'Arcivescovo mons. Franzoni per esporgli i suoi problemi, le difficoltà e l'esigenza di più ampi locali. Il prelato scrisse subito alla marchesa che permise si riducessero a cappella, due spaziose camere dell'ospedaletto. Il nuovo locale, dedicato a San Francesco di Sales, da lui scelto come modello e patrono dell'opera che stava iniziando, venne benedetto da Don Bosco che vi celebrò la prima Messa. Era l'8 dicembre 1844, giorno consacrato all'Immacolata, così caro al suo cuore per l'amore che portava alla Madonna e perché in quel giorno aveva iniziato il suo apostolato a servizio dei giovani (cf MB 2, 250).
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Pur di non perderne l'opera preziosa, la Marchesa di Barolo aveva autorizzato Don Bosco a radunare i suoi giovani nei locali dell'Ospedale Santa Filomena, non ancora ultimati. Cosi, la domenica, tutta la zona si riempiva fino all'inverosimile di ragazzi e giovani provenienti da tutta la città. I giochi chiassosi non erano sempre ben accolti, ma la sorveglinza vigile di Don Borei e di Don Bosco riusciva a tenere la situazione sotto controllo (cf MB 1, 255). L'oratorio era nato per educare cristianamente i giovani e per istruirli nelle verità della fede. Per le lezioni di catechismo, Don Bosco, in un primo tempo, li radunò nella propria camera. Ma il numero degli allievi aumentava ogni domenica. Si cominciò così a occupare anche tutto il corridoio (e qui insegnava Don Borei). Chi arrivava tardi doveva contentarsi di stare sulle scale... (cf MB 2, 246s). Ogni domenica, per la Messa si peregrinava in una chiesa diversa (cf MB 2, 248).
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Terminato il soggiorno al Convitto, Don Bosco accettò temporaneamente l'ufficio di cappellano all'Ospedale di Santa Filomena, fondato dalla Marchesa di Barolo per ospitare ragazze inferme. Provvisoriamente avrebbe badato al Rifugio, un'altra opera fondata dalla pia signora per accogliere e aiutare ragazze esposte a pericoli (cf MB 2, 236s). Gli aveva fatto ottenere quel posto Don Gio-van Battista Borei, uno zelante sacerdote che divenne il suo più fedele collaboratore nei tempi duri dell'Oratorio (cf MB 2, 225s; 241; 247; 260; 280; 303-305; 354s; 427; 501).
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Visto l'alto numero dei giovani oratoriani che la domenica affollavano il Convitto, il Rettore, canonico Guala, mise a disposizione di Don Bosco il cortiletto interno per i loro divertimenti. La sacrestia e il coretto della chiesa venivano usati per il catechismo. Diversi sacerdoti del Convitto davano volentieri una mano, anche se non mancava chi aveva da ridire per l'insolito chiasso (cf MB 2, 136-138). I frutti d'un tale apostolato si vedevano nella frequenza ai sacramenti e nel miglioramento della condotta della maggior parte dei giovani (cf MB 2, 137s).
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La domenica seguente Bartolomeo Garelli tornò con sei amici (cf MB 2, 75). Da allora, ogni domenica crebbe il numero dei giovani che da questo ingresso entravano nella sacrestia di San Francesco d'Assisi. Li attirava la bontà di quel prete il cui nome già diventava familiare tra gli apprendisti, i giovani abbandonati della citta, e anche tra gli imprenditori (cf MB 2, 76s; 91-94).
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L'8 dicembre 1841 la Provvidenza gli indicò la strada che doveva seguire per la salvezza di tante anime. Il giovane manovale Bartolomeo Garelli, entrato nella sacrestia della chiesa di San Francesco d'Assisi in cerca di un po' di calore, trovò un sacerdote che gli parlò con dolcezza da amico, così da strappargli un sorriso che forse mancava da molto tempo su quel volto. Con il suo aiuto il giovane riapprese il segno della croce e l'Ave Maria. Da quella preghiera e da tanta amorevolezza nasceva in quel giorno la grande realtà dell'Oratorio Salesiano (cf MB 2, 70-75).
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Nel 1845 a Torino era stata aperta una nuova prigione, detta la Generala. Essa sorgeva sulla strada per Stupinigi, era destinata a riformatorio per ragazzi e ne poteva contenere 300. Era sempre piena. Don Bosco, ancora giovane sacerdote, era stato avviato da Don Cafas-so a occuparsi dei giovani in carcere. Si recava a trovarli — come ha raccontato — con le saccocce piene ora di tabacco, ora di frutti, ora pagnottelle. Sempre con lo scopo di far del bene ai giovani che per disgrazia erano finiti là dentro, rendermeli amici e invogliarli a venire all'Oratorio quando fossero usciti dal luogo di punizione (MB 2, 62; 102-107; 142-143). Nella quaresima del 1855 tenne loro un corso di catechismo, poi alcuni giorni di esercizi spirituali che si conclusero con una confessione generale. Don Bosco promise loro qualcosa di eccezionale (Bibliografia nuova, 252-253). Infatti si recò dal direttore del carcere e poi dal ministro Rattazzi a richiedere il permesso di una passeggiata fino a Stupinigi. La sola condizione che io metto è che nessuna guardia ci protegga. E i ragazzi si impegnarono sul loro onore che nessuno sarebbe fuggito. La scampagnata si svolse in perfetto ordine, fino al castello di Stupinigi. Don Bosco celebrò la messa; poi giochi e gare in riva al fiume Sangone fino a sera. Al rientro, sulla porta della Generale, fu un addio triste. Don Bosco li salutò ad uno ad uno, col cuore triste per averli potuto liberare per un sol giorno, mentre il direttore del carcere li contava per assicurarsi che ci fossero tutti. C'erano. L'episodio, conosciuto a Torino, accrebbe la fama di Don Bosco apostolo dei ragazzi. Così si presenta ancora oggi l'edificio dove i Salesiani hanno continuato l'assistenza ai ragazzi della Generala, e la svolgono ancora oggi.
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Don Bosco ebbe modo di conoscere la situazione della povera gente e soprattutto dei giovani a Torino. Studente al Convitto percorreva le strade dei quartieri poveri, e visitando le soffitte e le abitazioni degli immigrati ebbe ben presto occasione di vedere e vivere scene di miseria e violenza di cui erano protagonisti e vittime innumerevoli giovani (cSMB 2, 57-59; 64-65).
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Altro frequente luogo d'incontro di Don Bosco con la sua guida spirituale fu questa camera. Alla porta di questa stanza il giovane sacerdote bussò la sera del suo ingresso al Convitto (cf MB 2, 50). Ad essa busserà innumerevoli altre volte per chiedere consiglio quando dovrà prendere decisioni importanti sul proprio avvenire e sull'Oratorio. Qui anche riceverà molta parte dell'aiuto finanziario necessario per portare avanti le sue attività coi giovani (cf MB 2, 92-93; 204-205; 207...; 4, 588-589; 592.
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Al neo sacerdote vennero fatte diverse proposte di ministero. Seguendo il consiglio di Don Cafasso, egli le lasciò cadere tutte ed entrò invece nel Convitto Ecclesiastico di Torino (cf MB 2,38. 39. 44. 50), cui era annessa la chiesa di San Francesco d'Assisi. Fin dall'inizio Don Bosco scelse come modello da imitare e come direttore spirituale Don Cafasso, che lo accoglieva settimanalmente in questo confessionale sempre assiepato di penitenti (cf MB 2, 55. 158).
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Celebrò la sua prima Messa a questo altare, dedicato all'Angelo Custode, nella chiesa di San Francesco d'Assisi. Lo assisteva il suo conterraneo e amico Don Giuseppe Cafasso. La lapide a destra ricorda questo avvenimento. Don Bosco chiese al Signore l'efficacia della parola, per poter fare del bene alle anime (cf MB 1, 519).
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Il 5 giugno 1841 Giovanni fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo di Torino mons. Fransoni. L'ordinazione avvenne in questa chiesa dedicata all'Immacolata Concezione, annessa al palazzo arcivescovile in via XX Settembre (cf MB 1, 518). Don Bosco vi si era preparato con la serietà e l'impegno che la missione comportava. Negli Esercizi Spirituali che precedettero l'ordinazione aveva preso alcuni propositi ai quali avrebbe ispirato la sua condotta per tutta la vita (cf MB 1, 518-519).
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Dai Becchi a Valdocco In cerca di una dimora stabile
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L'ultimo aggancio con la Chieri dei tempi di Giovanni Bosco è costituito da questo disegno litografico. È un vero documento storico che ci mostra la diligenza (carrozza) che collegava Castelnuovo d'Asti a Chieri. La gente è in costume dell'epoca e ripropone le usanze di quel tempo. La fantasia potrebbe farci scorgere, tra la gente, anche mamma Margherita e il neo sacerdote Giovanni Bosco in partenza per il suo paese nativo a celebrarvi la sua prima Messa.
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Un fatto straordinario: una bilocazione di Don Bosco avvenne in questa casa di Chieri in via Giovanni Demaria dove abitava Bernardo Casalegno. Don Lemoyne nel vol. 7 delle Memorie Biografiche a pagina 224 riferisce quanto scrisse Don Bonetti in proposito. All'inizio di luglio del 1862 Don Bosco aveva detto che un suo giovane sarebbe morto; ora Casalegno Bernardo di Chieri, studente a Valdocco, moriva in famiglia venerdì 18 luglio alle ore 14,15, mentre Don Bosco si trovava a Sant'Ignazio sopra Lanzo per gli esercizi. Lo stesso venerdì il Santo riferì ai ragazzi che era stato al letto di Bernardo e lo aveva assistito negli ultimi momenti. Noi a Torino non sapevamo nulla e già Don Bosco comunicava a Don Alasonatti la notizia del decesso. Come aveva fatto a conoscerla? Abbiamo interrogato i ragazzi e abbiamo concluso che era umanamente inspiegabile, date le circostanze del fatto. Noi aggiungiamo che il padre stesso, Cav. Geom. Giuseppe Casalegno, confermò al Sac. Bartolomeo Gaido, come Don Bosco, trovandosi lontano, annunziasse pubblicamente la morte del figlio nel momento stesso che spirava.
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Questo palazzo posto su una altura di Chieri era la casa di campagna dei signori Gonella di Torino. Era circondata di giardini e frutteti e vantava un magnifico orto botanico (cf MB 6, 1013). Il cav. Marco Gonella e la sua consorte furono tra i più grandi e i più affezionati benefattori di Don Bosco. Per interessamento del teologo Borei il santo entrò in contatto con loro e da loro ricevette la prima somma di 300 lire (cf MB 2, 260). La casa Gonella ospitò moltissime volte sia Don Bosco sia i suoi ragazzi quando facevano le passeggiate autunnali. Questa casa era una tappa d'obbligo e i padroni offrivano loro una eccezionale ospitalità per riposarsi dalla fatica del viaggio fatto a piedi, e qui trovavano sempre abbondante ristoro. Qualche volta sorpresi dalla pioggia ricevettero le più amorose cure e un delizioso riparo per la notte che i giovani ricambiavano con canti, suoni e recite (cf MB 4, 54; 7, 278-531). Uno dei ragazzi che godettero di tanta cordiale ospitalità fu Michele Magone. Questi nobili coniugi tennero a padrino un ragazzo convertito dal protestantesimo e battezzato all'Oratorio dal vescovo di Biella Mons. Giovanni Losana. B Gonella prestò il suo aiuto a Don Bosco nelle sue molteplici lotterie, come direttore e segretario. Il nome di Marco Gonella figura nella lista dei benefattori, ai quali Don Bosco mandava ogni anno l'uva della sua vite di Torino.
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La bella chiesa di San Domenico, col suo campanile svettante fu frequentata da Giovanni fin dall'inizio della sua permanenza a Chieri. Ordinato sacerdote, vi tornerà per celebrarvi la terza Messa, all'altare della Madonna del Rosario. Lo assisterà il P. Domenico Giusiana, suo insegnante di III ginnasio (cf MB 1, 521).
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Gli anni del seminario trascorsero velocissimi, dal 1835 al 1841. Questa lapide, posta all'entrata, testimonia i suoi luminosi esempi e l'amore di cui fu circondato da superiori e condiscepoli. Egli stesso scrisse poco dopo aver lasciato il luogo della sua formazione sacerdotale: I superiori mi amavano e mi diedero continui segni di benevolenza; i compagni mi erano affezionatissimi; perciò mi tornò dolo-risissima quella separazione da un luogo... dove ebbi tutti i segni di bontà e di affetto che si possono desiderare (cf MB 1, 515).
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Nella cappella del seminario, Giovanni, spesso accompagnato da Comollo, trascorse i momenti più belli della sua giornata: la Messa, la meditazione, il rosario e le frequenti visite a Gesù sacramentato. Questo divenne anche un po' il suo regno da quando fu nominato sacrista (cf MB 1, 457).
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Questa lapide, posta nel corridoio delle scuole del seminario, testimonia ancor oggi lo straordinario avvenimento. Essa dice: Luigi Comollo, alunno di integerrimi costumi, la terza notte dopo la morte apparve a Giovanni Bosco, suo carissimo amico, in un fragore di tuono e avvolto di luce, e gli assicurò di essere salvo. n seminario volle dedicarvi questa lapide, con l'approvazione del card. Fossati, arcivescovo di Torino: 1839-1939.
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Il fatto straordinario fu attestato da tutti i chierici della camerata che balzarono in piedi svegliati dal rumore, e alcuni di loro udirono la voce del Comollo. Il fatto fu confermato da Don Fiorito di Rivoli, assistente di camerata, e dai superiori del Seminario. Se ne parlò anche fuori le mura del Seminario, ma poi tutto fu messo a tacere per prudenza.
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In cima a questo scalone, è l'accesso alla camerata che ospitò Giovanni Bosco, Luigi Comollo e altri seminaristi. In essa, verso la mezzanotte del giorno dopo la sepoltura di Comollo, si sentì un rumore spaventoso. La porta si aprì violentemente ed echeggiò scandita questa frase: Bosco, Bosco, sono salvo!. C'era stato un accordo tra i due: il primo che fosse morto sarebbe venuto a comunicare la propria sorte nell'ai di là (cf MB 1, 470-474). Questa apparizione lo turbò a tal punto che si ammalò gravemente.
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D. chierico Bosco e quei suoi compagni si comunicavano a questo altare nella chiesa di San Filippo. Esso divenne particolarmente caro a Giovanni perché D, davanti alla balaustra, era stato tumulato il suo amico Luigi Comollo, morto il 2 aprile 1839. Giovanni lo aveva assistito amorosamente nell'agonia, e più tardi (nel 1844) ne scriverà la biografia.
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Attraverso questa sacrestia, ogni mattina giovanili Bosco e i suoi compagni più fervorosi passavano dal seminario alla chiesa di San Filippo per fare la comunione. Questo gesto di pietà eucaristica costava la rinuncia alla colazione. In questo modo ho potuto frequentare assai più la comunione, che posso chiamare il più efficace alimento della mia vocazione (cf MB 1, 378).
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Il Crocifisso e i grossi tavoli conferivano al refettorio un caratteristico senso di gravità. Il tempo dei pasti era impiegato per due terzi nella lettura edificante. Don Bosco ricorda che allora si leggeva la Storia della Chiesa del Ber-castel. Nello stesso refettorio, durante le ricreazioni, i chierici tenevano il cosidetto circolo scolastico. Ciascuno poneva dei quesiti intorno a cose che non sapeva o che non aveva afferrato dai trattati scolastici o dalla spiegazione degli insegnanti. Ciò mi piaceva molto e mi tornava utile allo studio. Per la mia età e più per la benevolenza dei compagni, io ero presidente di questo circolo e giudice inappellabile (cf MB 1, 409).
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Grandi saloni, muri severi quelli del seminario: tutto portava alla riflessione sul significato della scelta fatta e sulla necessità di prepararsi con piena consapevolezza alla missione futura. Tale severità il chierico Bosco riusciva sapientemente a mitigare con uno spirito di profonda giovialità, che sapeva comunicare ai suoi compagni, e che domani sarà il segreto della sua prodigiosa attività.
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II proposito dì compiere esattamente il proprio dovere, che aveva preso al ritiro dell'inizio d'anno scolastico (ci MB 1,374), lo portò ben presto ad essere un'autorità morale e un modello per gli altri seminaristi (cf MB 1, 379). Insieme con alcuni amici fidati fondò anche un circolo scolastico, il cui scopo era di promuovere l'osservanza delle regole del seminario e l'approfondimento delle materie scolastiche... (cf MB1, 409). In questo corridoio il chierico Bosco tratteneva i suoi compagni in ricreazioni e conversazioni.
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Una delle prime cose che attrasse l'attenzione del neoseminarista fu la meridiana che si trova su una facciata del cortile interno del seminario. Lo colpì soprattutto la frase latina che si può ancora leggere alla base: Le ore scorrono lente per gli afflitti, veloci per quelli che sono allegri. Da quel giorno Giovanni si rafforzò nel proposito di essere sempre sereno (cf MB 1, 374).