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Don Bosco e il suo ambiente: Titolo
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Dai Becchi a Valdocco Le origini
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Questo è il Piemonte, una delle regioni d'Italia più ricche, belle e varie. La sua storia religiosa di questi ultimi cent'anni è indissolubilmente legata alla personalità e all'opera di Giovanni Bosco, uno dei suoi figli migliori. La nostra narrazione documentaria comincerà da modesti centri abitati come Capriglio, i Becchi, Castelnuovo, Moncucco: gruppi di cascine e minuscoli villaggi che ingemmano le colline dell'Astigiano. Luoghi cari e familiari ai milioni di persone che trovano in san Giovanni Bosco l'ideale che li affascina.
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L'Astigiano occupa il cuore del Piemonte. È caratterizzato da colline rìdenti di vigneti pulsanti di attività serena, e costellato da piccoli paesi e gruppi di cascine. Eccovi una tipica veduta. Al centro sta Castelnuovo d'Asti, ribattezzato Castelnuovo Don Bosco, in onore del suo cittadino più illustre.
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Ed ecco un tipico cascinale dell'Astigiano che conserva tutte le caratteristiche dei tanti che esistevano ai tempi di Don Bosco: il tetto di tegole rosse, il ballatoio sul quale spesso si arrampicava la vite e che comunicava con le camere da letto e il granaio. Al pianterreno, la stalla, il forno e la cucina. All'esterno, nel cortile o nella campagna attigua, il pozzo.
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La nostra storia comincia a Capriglio, un piccolo paese suddiviso in diverse frazioni disseminate tra il folto verde dell'Astigiano. Qui, il primo aprile 1788, nacque Margherita Oc-chiena, la madre di Don Bosco (cf MB 1, 13-14).
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Una casa di contadini, ricca di anni, di povertà e di tanta fede. Oggi completamente ristrutturata, conserva una lapide che ricorda come sua gloria la nascita di Margherita, figlia di Melchiorre Occhiena e di Domenica Bossone. Margherita, la sestogenita, visse nella casa paterna fino al giorno del suo matrimonio con Francesco Bosco (cf MB 1, 30).
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L'acqua per il fabbisogno quotidiano e per abbeverare le bestie veniva attinta da questo pozzo, che si trova nel cortile della casa. Da notare il caratteristico arganetto sostenuto da un tronco d'albero e azionato a mano, con una manovella di ferro. La robusta corda, collegata ad una catena, sosteneva il secchio usato per attingere l'acqua.
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Questa cucina è ricostruita come poteva essere allora. Nel caminetto il paiolo di rame sul fuoco acceso. A destra, la grossa madia nella quale s'impastava la farina e si conservava il pane. Sulla madia, diversi utensili da cucina. Alla parete un mobile-credenza per conservare le stoviglie. Il pavimento era a mattonelle quadrate di argilla cotta.
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Così è probabile che fosse arredata la camera da letto di casa Occhiena: un letto matrimoniale di legno con pagliericcio riempito di foglie di granoturco, lenzuola di tela ruvida e un copriletto; il comodino con sopra una lampada ad olio o una candela; il comò con più cassetti per riporvi la biancheria.
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Un curioso episodio dice la sicurezza e la saldezza di nervi di Giovanni. Avvenne nell'autunno del 1820 a Capriglio, dove Giovanni si era recato per la vendemmia presso i nonni. In attesa della cena, qualcuno raccontò che nei tempi passati in solaio si erano uditi rumori strani che soltanto il demonio poteva procurare. Giovanni si dimostrava notevolmente incredulo. Ma, ad un tratto, proprio dal solaio sopra la stanza dove si trovavano, provenne un colpo improvviso, come un tonfo, seguito da uno strano rumore sordo e lento, come di uno che trascinava delle pesanti catene. Tutti tacquero allibiti. Giovanni ruppe quel pesante silenzio: — Andiamo a vedere —, disse risoluto. — Ma sei matto? Aspettiamo domani... Ma Giovanni prese decisamente la lucerna e si avviò per la scaletta interna verso il solaio. Gli altri gli tenevano dietro armati di bastoni, pronti a scappare al primo segnale di perìcolo. Il ragazzo sale l'ultimo gradino e spalanca la porta della soffitta illuminandola con la lucerna: nessuno, assolutamente nessuno. Guardano anche gli altri, un po' rassicurati. Ma in quel momento un grido e una fuga precipitosa: qualcosa si muoveva laggiù per terra, in fondo al solaio. Era un vaglio che avanzava lentamente e in modo irregolare. Giovanni avanzò qualche passo, il vaglio si fermò. Nonostante le proteste spaventate di quelli che guardavano da lontano, prese risolutamente il vaglio e lo sollevò. Fu uno scoppio di risate: comparve una grossa gallina, che era andata a beccare i granelli di granoturco rimasti tra i vimini del vaglio e questo le si era rovesciato addosso facendola prigioniera. Quella sera stessa lo spirito folletto finì in pentola offrendo un'ottima cena.
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Contro le due pareti di questo seminterrato che serviva da cantina erano addossati i principali contenitori in uso a quel tempo: botte, mastello, tinozza, damigiane di varie dimensioni. Lungo la parete di sinistra una bigoncia, usata per la raccolta e la pigiatura dell'uva. Appesi al muro, o collocati in piccole nicchie, altri contenitori o strumenti. La cantina serviva anche da deposito per alcuni generi di provviste.
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A un chilometro circa dalla casa degli Occhiena sorge la chiesa parrocchiale di Capriglio. Margherita, che vi fu battezzata il giorno stesso in cui nacque {ci MB 1,15-16), la frequentò assiduamente per tutto il tempo che rimase al paese (cf MB 1, 13-14), e vi celebrò il matrimonio con Francesco Bosco il 6 giugno 1812 (cf MB 1, 28).
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Caprìglio fu uno dei primi piccoli centri abitati ad avere una scuola elementare. Il responsabile dell'insegnamento era il sacerdote-maestro Don Lacqua. Giovanni Bosco frequentò questa scuola nei due inverni 1824 e 1825. Il buon maestro Don Lacqua non solo gl'insegnò i primi elementi della scrittura, della lettura e dell'aritmetica, ma prese anche a cuore la sua educazione cristiana (cf MB 1, 98-99).
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I Bosco, oriundi di Chieri, emigrarono prima a Castelnuovo, poi si stabilirono nella zona dei Becchi come mezzadri nella cascina dei conti Biglione di Chieri. Vi lavorarono per oltre 24 anni, dal 1793 al 1817. Vi chiusero la loro esistenza Filippo Antonio e suo figlio Francesco, padre di Don Bosco, colpito da polmonite a soli 34 anni. Giovannino aveva allora due anni. Nel testamento di Francesco, recentemente scoperto, è detto chiaramente che egli e tutta la sua famiglia dimoravano ancora in casa Biglione. La cascina Biglione, fu demolita per l'erezione del tempio in onore di san Giovanni Bosco, prima che si sapesse di questa sua importanza.
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Tre mesi prima di morire, con atto notarile dell'8 febbraio 1817, Francesco Bosco aveva comperato da Francesco Graglia un fabbricato distante 150 metri dalla cascina Biglione. Questa casa era situata in cantone Cavallo, ed era composta di erotta e stalla a canto, fenera superiore dall'alto in basso, coperta a coppi, in cattivo stato con sito a grano avanti. Morto il marito mamma Margherita continuò ad abitare con la famiglia nella cascina Biglione fino a metà novembre. In quei pochi mesi essa preparò l'abitazione nel modesto edificio acquistato. Dal fienile furono ricavate due stanzette per sistemarvi la famigliuola.
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Così si presentava la nuova casa. Al pian terreno: portico, stalla e cucina, e adiacente una tettoia a uso ripostiglio dall'alto in basso. Al piano superiore, a cui si accedeva mediante una scala di legno addossata alla parete, come si vede ancora oggi: la stanza di mamma Margherita e della suocera; accanto, la camera dove dormivano i tre figli, oggi chiamata camera del sogno. La casa misurava in tutto 12 metri di lunghezza, 4,25 di altezza e circa 3 di larghezza. In essa si trasferì mamma Margherita il 13 novembre 1817 con il figliastro Antonio, con i figli Giuseppe di anni 10 e Giovanni di due anni, e con la suocera semiparalizzata.
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Erano finalmente in casa propria, contenti del loro poco. La terra che possedevano era insufficiente a fornire il necessario per vivere; ma avevano tanta fede, laboriosità e parsimonia, che riuscivano anche ad aiutare quelli più poveri di loro. Si può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mamma Margherita, tra mille difficoltà e priva dell'aiuto del marito. Ma seppe tirare avanti con coraggio e fiducia nella Provvidenza. Alla sua scuola i figli si formarono alla laboriosità, all'onestà, all'obbedienza, e al santo timor di Dio.
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In questa cucina, arredata in una ricostruzione verosimile con oggetti tipici di ogni casa agricola del tempo, si riuniva la famigliola di mamma Margherita. Queste pareti furono mute spettatrici di una povertà talvolta drammatica (cf MB 1,37-39), di una costante educazione alla fede e di una profonda religiosità (cf MB 1, 46; 57; 59), di ospitalità generosa (cf MB 1, 150-154), e più tardi di aspri dissidi originati dalla opposizione di Antonio agli studi di Giovanni (cf MB 1, 96; 180; 184; 188; 191; 215).
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Quante volte al paiolo appeso al fuoco mancava la pasta o la carne da mettere a cuocere. Spesso un pugno di legumi o di farina di granoturco o di miglio presi a prestito o una manciata di verdura colta nell'orticello o strappata nel prato, costituivano il pranzo e la cena della giornata. Accanto a questo focolare sferruzzava e rammendava i logori panni mamma Margherita quando era libera dagli impegni e dal lavoro dei campi, mentre Giovanni leggicchiava. D'inverno, al termine della giornata, tutti i membri della famiglia vi si radunavano per conversare, ma soprattutto per le preghiere e la recita del Rosario (cf MB 1, 46).
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In questa stanza dormivano mamma Margherita e la suocera semiparalizzata, che lei assisteva con amore e delicatezza di figlia (cf MB 1,171). Una stanza povera e disadorna. Unica caratteristica: un caminetto e il soffitto a pannelli di gesso, sorretto da robuste travi.
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Adiacente alla camera da letto di mamma Margherita, in quest'altra stanza con pavimento e soffitto di calcestruzzo, dormivano i tre fratelli: Antonio, Giuseppe e Giovanni. Un locale molto piccolo che misura m 4 per 2,20; l'altezza del soffitto varia da m 2 a 1,40, presso l'unica f'enestiella di cm 50 per cm 61. Qui Giovanni, all'età di circa nove anni, fece il famoso sogno, nel quale intravide la sua vocazione e futura missione (MB 1, 123-126). Per questo la stanza è chiamata la cameretta del sogno.
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Questo sogno, come lo raccontò Giovannino il mattino seguente, è stato dipinto dal pittore Pietro Favaro: Giovannino sogna nella sua stanzetta; sopra la sua testa un gruppo di ragazzi che rissano e schiamazzano; accanto al letto un Signore maestoso: più in basso una misteriosa Signora tiene Giovannino per mano, circondata da mansueti agnelli, mentre alle loro spalle ringhiano belve feroci. Il quadro si trova nella chiesa dell'Istituto Salesiano di Alassio. Più tardi questo sogno si ripetè con altri particolari (cf MB 1, 126s; 305).
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Quasi inconsciamente, anticipando la realizzazione della missione affidatagli dal cielo, Giovanni cominciò ben presto a calamitare attorno a sé piccoli e grandi, intrattenendoli con racconti avvincenti, ripetizione di prediche e momenti di preghiera. Uno dei luoghi preferiti per questi incontri, soprattutto nelle lunghe serate invernali, era la stalla: sia quella di casa sua, sia quella di altre cascine della zona. L'intraprendente ragazzo incantava l'uditorio col suo parlare e il fascino del suo sguardo limpido. Molti si domandavano che cosa sarebbe diventato quel giovane (cf MB 1, 137s).
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Luogo preferito per i suoi intrattenimenti, oltre le aie e i prati, era il fienile della casa paterna. Vi si accedeva dall'esterno con una scala a pioli, e vi si conservavano il fieno, la paglia e le foglie per gli animali. Qui Giovanni si esercitava segretamente nei giochi acrobatici che aveva appreso dai saltimbanchi nelle fiere e che eseguiva davanti ai coetanei, d'inverno nella stalla, d'estate nel prato (cf MB 1, 104-106; 141).
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Diamo ancora uno sguardo d'insieme all'umile casetta dei Bosco. Ci dà una chiara idea della povertà e semplicità in cui si temprò alla vita colui che avrebbe costruito grandi chiese e tanti centri di studio per la formazione umana e cristiana della gioventù.
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Attorno al 1820-1830 ci fu una gravissima crisi economica in tutto l'Astigiano. Le ristrettezze acuivano di più l'opposizione di Antonio a che Giovanni studiasse (ci MB 1, 96; 180; 184; 188...). Per amor di pace mamma Margherita, nell'autunno del 1827, mandò Giovanni a Serra di Buttigliera, presso suoi conoscenti alla cascina Campora (cf MB 1,192). Ma la sua presenza, più che essere di utilità, creava disagio tra il personale della cascina, poiché il lavoro e il pane scarseggiavano anche per loro. Così Giovanni se ne tornò dalla mamma dopo breve permanenza (cf MB 1, 192).
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Ma ben presto la situazione divenne di nuovo insostenibile, e nel febbraio 1828, con un involtino sotto il braccio e la benedizione della mamma, Giovanni si mise di nuovo in cammino, in cerca di lavoro, pane e tranquillità. Questa immagine di aridità e freddo dà un'idea dell'ambiente e del clima che accolse il ragazzo. Provò a Moriondo. Molti lo commiserarono, ma nessuno lo volle accettare. Bussò a diverse cascine che costellavano le terre attorno a Moncucco, ma non ebbe sorte migliore...
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Alla sera, affamato e scoraggiato, arrivò alla cascina Moglia, nella borgata omonima. Era l'ultimo posto che gli aveva suggerito mamma Margherita (cf MB 1, 191). Anche qui la prima risposta fu un rifiuto. Cosa avrebbe potuto fare nella cascina quel ragazzo poco più che dodicenne? Ma Giovanni, deciso a spuntarla, piangendo si mise a raccogliere i vimini insieme ai padroni. Il buon cuore di Dorotea, la moglie del padrone, la vinse sui calcoli economici. Fu accettato, in prova. Avrebbe badato agli animali della stalla (cf MB 1, 192s).
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E i Moglia non se ne dovettero pentire. Ma chi dava tanta forza a quel ragazzo che nella quotidiana fatica dei campi teneva testa ai vigorosi giovanotti e alle espertissime persone anziane? I nuovi padroni se ne renderanno conto a poco a poco: c'era un sogno verso il quale egli orientava tutte le sue forze.
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Ben presto la sua bontà e continua disponibilità gli guadagnarono l'affetto dell'intera famiglia Moglia (cf MB 1,198; 206). Fu trattato come un figlio. In questa nitida e spaziosa cameretta egli riposava dopo le faticose giornate e poteva ritirarsi a studiare e pregare. L'ideale di diventare sacerdote non lo abbandonava mai, né aveva vergogna a palesarlo (cf MB 1, 200; 207). Una volta realizzato il suo sogno, accoglierà sempre i suoi antichi padroni come ospiti graditi (cf MB 1, 206-208).
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Giovannino, come garzone, fece tutti i lavori che comportava la manutenzione di una stalla: foraggiava le bestie, le abbeverava, le mungeva, ne preparava il letto con paglia o foglie di granturco... Col bel tempo le conduceva al pascolo nei prati circostanti, dove alternava la cura degli animali con la lettura del catechismo e con la preghiera (cf MB 1,196; 198). Il padrone Moglia, apprezzando il servizio di Giovanni e vedendolo tanto desideroso di studiare, un giorno gli disse: Resta inteso che, terminati i tuoi lavori, puoi ritirarti e studiare quanto vuoi.
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Altro lavoro gravoso per Giovanni era attingere con un secchio di legno (siun) l'acqua necessaria per abbeverare il bestiame, tre volte al giorno. Una corda, che scorreva nella scanalatura di una ruota di ghisa o di legno, e alla quale era agganciato il secchio al cainas, veniva fatta scendere e salire a braccia, e l'acqua veniva versata in una tinozza di legno.
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In primo piano il carro agricolo a cui si aggiogavano le mucche, per i vari trasporti nella cascina. In secondo piano, addossato alla facciata, il pozzo dal quale Giovanni attingeva l'acqua per gli usi domestici e per il bestiame; un lavoro abbastanza faticoso. Il pozzo esiste tutt'ora.
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La primavera segnava l'inizio dei lavori pesanti. In questa stagione infatti si iniziava a fare lo scasso e a piantare le viti, a vangare, a potare, a legare i tralci ai pali e a zappare. Giovanni Moglia aveva condotto il giovane Bosco una mattina a piantare quattro nuovi filari di viti. Ad un dato momento il ragazzo, stanco, disse che non ne poteva più dal mal di schiena e alle ginocchia, dovendo lavorare tutto curvo. Esortato a riprendere il lavoro, ad un tratto disse: Queste viti che io sto legando, faranno l'uva più bella, daranno il miglior vino e in maggiore quantità, e dureranno più delle altre (MB 1, 206).
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A maggio, poi, veniva la falciatura del fieno nei prati: un lavoro duro e faticoso riservato agli uomini più robusti, ma al quale tutti collaboravano per spandere, voltare e rastrellare il fieno. A quei tempi era molto sentito lo spirito di solidarietà e di collaborazione: i contadini dei vari poderi si aiutavano volentieri gli uni gli altri a falciare, raccogliere e sistemare il fieno in cascina.
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Infine si caricava col tridente il fieno sul carro agricolo, trainato da una coppia di mucche o di buoi. Il raccolto veniva così portato sull'aia di casa, sistemato nel fienile e conservato come foraggio invernale per le bestie. A volte temporali improvvisi facevano accelerare i lavori. Allora il ritmo diventava frenetico: era una lotta contro il tempo per evitare che il fieno si inzuppasse d'acqua.
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Ma il lavoro che richiedeva maggior fatica era la mietitura del frumento e dei cereali sotto il cocente sole estivo. Con la schiena curva, la falce in mano e il corpo bagnato di sudore, i contadini falciavano il grano a grosse manciate e lo componevano in fasci, detti covoni. I violenti acquazzoni e ancor più le grandinate erano i pericoli peggiori di questa stagione. La violenza delle intemperie, infatti, rischiava di vanificare il lavoro di un intero anno rovinando, interamente o in parte, il raccolto, con conseguenti, terribili carestie, ricordate più volte negli annali dell'agricoltura astigiana, ma anche nelle Memorie Biografiche di Don Bosco.
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Tra le varie incombenze di Giovanni c'era anche quella di condurre i buoi che tiravano l'aratro. Questa inquadratura agreste ci richiama alla mente le tante volte che egli svolse la stessa occupazione. Ma il lavoro non lo distoglieva mai completamente dagli studi. Egli, infatti, teneva sempre un libro a portata di mano, e quando poteva vi dava una sbirciatina (cf MB 1, 200).
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Quando la calura era grande, Giovanni cercava riparo all'ombra di questo gelso. Qui sorvegliava e trastullava il piccolo Giorgio di 3 anni, figlio del padrone. Nei momenti liberi poi soleva radunare presso quest'albero i suoi amici giovani e meno giovani per intrattenerli con giochi vari, racconti edificanti ed esibizioni acrobatiche (cf MB 1, 200). D'inverno il luogo di riunione era il capace fienile che egli sceglieva per non disturbare o essere disturbato (cf MB 1, 199).
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I vigneti, insieme alla stalla, erano la migliore risorsa della cascina. Perciò la sollecita cura delle viti costituiva la parte preponderante del lavoro. Bisognava potare, zappare, concimare, irrorare e dare lo zolfo e il verderame. E finalmente, dopo tanti mesi di fatiche, la vendemmia, sempre sperando che non venisse la grandine a distruggerla.
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Grappoli abbondanti, succosi e freschi!... Così dovevano essere quelli prodotti dai filari piantati da Giovanni nelle proprietà dei Moglia. Le sue parole profetiche (ricordate al MB 1,35), furono accolte con un sorriso incredulo, ma più tardi i padroni ne testimoniarono l'avveramento con fierezza e gratitudine (cf MB 1, 206).
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Ecco la cantina seminterrata della cascina dove Giovanni prestava la sua collaborazione alla pigiatura dell'uva, alla spulatura del vino e alla pulizia delle botti. Questo lavoro gravoso era affidato sovente ai ragazzi più snelli e agili nel calarsi nelle capaci botti per togliere i graspi, pulirle dalle vinacce, e per riporre il mosto conservato fino a fermentazione avvenuta.
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Questa vecchietta che rimesta la polenta nel paiolo e la scodella sulla tavola, simboleggiano l'accoglienza affettuosa che Giovanni trovò nella cascina Moglia. Fin dall'inizio fu considerato uno della famiglia. Egli fece di tutto per ricambiare la stima di cui lo circondavano, né mai si tirò indietro di fronte ad un servizio, per quanto umile e faticoso. Si può dire che fu sempre il beniamino della signora Dorotea, che gli insegnò a recitar bene le litanie della Madonna e lo incaricò di guidare le preghiere della famiglia (cf MB 1,195).
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A circa un'ora di cammino dalla cascina Moglia, attraverso sentieri in mezzo alle colline, si raggiungeva il paese di Moncucco. Là dovevano recarsi gli abitanti della borgata per la Messa domenicale. Ma questo non poteva bastare a Giovannino, sempre assetato di Dio.
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Nei giorni di festa il lavoro dei campi si fermava. Ma Giovanni non conosceva riposo. La domenica mattina, prestissimo, prese ad andare a Moncucco per confessarsi, ascoltare la Messa e fare la Comunione. Ben presto, avuta l'approvazione del parroco Don Cottino, organizzò come un piccolo oratorio, radunando i giovani per buona parte della giornata, intrattenendoli con la sua inventiva e serenità e guidandoli nella preghiera. Rientrava in cascina alla sera, cantando felice, pur nella sua stanchezza (cf MB 1, 195; 202).
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Il parroco, il teologo Cottino, che conobbe fin dai primi giorni Giovanni, notò in lui una devozione sincera, conobbe il buono spirito che lo animava, e lo appoggiò. Con il suo aiuto Giovanni ottenne la sala della scuola comunale a sua disposizione. Nei giorni festivi i giovani del paese si fermavano a fare solennemente la Via Crucis, e poi nella sala incominciavano i trattenimenti con la lettura di un libro di devozione, e ascoltavano i racconti di Giovanni. Egli poi li divertiva con i giochi e con la sua allegra inventiva. Era un primo inizio di oratorio festivo.
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Il fienile che vediamo in alto ricorda l'episodio dell'Angelus. In una giornata estiva, Giuseppe Moglia se ne tornava a casa dai campi sul mezzogiorno, con la zappa in spalla, tutto sudato. In lontananza una campana invitava alla recita dell'Angelus. Alzando lo sguardo vide Giovanni che, rientrato poco prima, in ginocchio recitava la preghiera. Guarda là — esclamò ridendo —; noi padroni ci logoriamo la vita a lavorare e lui se ne sta tranquillo a pregare!. Giovanni, terminata la preghiera, rispettosamente rispose: Voi sapete che io non mi sono mai risparmiato sul lavoro; è vero però che io ho guadagnato più a pregare che voi a lavorare (ci MB 1, 197).
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Sul muro della casa è stata murata una lapide ricordo e il busto del Santo. Uno dei discendenti dei Moglia per parte materna, Carlo Casalegno, attuale proprietario della cascina, li volle mettere il 22 ottobre 1969 in segno di perenne gratitudine per i tanti benefici ricevuti da Don Bosco. Una lapide e un carro di fieno: ricordano le due forze su cui si formò la vita del futuro apostolo della gioventù: il lavoro e la preghiera. Sono gli stessi elementi che daranno in seguito forza ed efficacia della sua opera educativa. Giovanni si avviava a concludere il suo secondo anno di permanenza alla cascina Moglia. Ma quella vita non gli offriva nessuna prospettiva di realizzare il suo ideale di diventare sacerdote.
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Un giorno di fine autunno 1829, lo zio materno Michele, passato di là a trovare il nipote e saputo che persisteva vivo in lui il desiderio di continuare gli studi, volle che tornasse a casa: avrebbe provveduto lui a farlo studiare. I Moglia soffrirono molto per la sua partenza (cf MB 1, 205s), ma Giovanni, acceso di nuova speranza, diede l'addio a quei luoghi a lui cari. Più tardi definirà il periodo passato alla cascina Moglia tra i più belli della sua giovinezza.
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Dai Becchi a Valdocco La prima scuola
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Così, reduce dalla cascina Moglia, Giovanni rivide la borgata dei Becchi dopo un'assenza di circa due anni. Ma ben presto vennero le delusioni: non si riusciva a trovargli né una scuola né un maestro. Dovette allora riprendere a fare il contadino, aspettando tempi migliori (et MB 1,208-210).
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A 4 chilometri dai Becchi esiste un importante centro agricolo: Buttigliera d'Asti. Giovanni vi andava con la famiglia per le fiere e i mercati. Ma questo paese è legato alla nostra storia per un avvenimento particolare: il Giubileo, indetto da Pio VIII nel 1829. A Buttigliera si tennero predicazioni straordinarie che videro Giovanni assiduo ascoltatore. Aveva allora quattordici anni. Una di quelle sere, tra il 5 e il 7 novembre, sulla via del ritorno, egli si incontrò con Don Giuseppe Calosso, cappellano di Morialdo. Il sacerdote, colpito dalla vivacità del ragazzo, l'invitò a ripetergli il sunto della predica udita. L'esatta ripetizione fece strabiliare il cappellano: dopo altre domande, invitò Giovanni a casa sua (cf MB 1,178).
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Lo storico incontro con Don Calosso, che segnò la sua vita di contadino che aspirava al sacerdozio, avvenne proprio lungo questa discesa, che da Buttigliera solca i vigneti e i prati.
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Le prediche a Buttigliera si tenevano in questa chiesa, dedicata a san Biagio. Costruita e ampliata a più riprese, venne coronata con l'erezione di un artistico campanile, che a ragione è considerato come uno dei più belli del Piemonte. Eretto nel 1789, domina sulle campagne circostanti, e per la sua altezza costituisce l'ornamento più nobile del paese. In questa chiesa Giovanni Bosco ricevette la Cresima il 4 agosto 1833 all'età di 18 anni, dalle mani di mons. Gianotti, vescovo di Sassari.
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A quei tempi nei paesi di campagna l'amministrazione della Cresima non avveniva tutti gli anni. Nell'archivio della chiesa parrocchiale di Buttigliera d'Asti, si conserva l'elenco dei 72 cresimati del 1833, tra cui figura il nome di Giovanni Bosco (cf MB 1,277). Padrino per tutti il sindaco Giuseppe Marzano, e madrina Melina Giuseppina, contessa di Capriglio.
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La borgata di Morialdo, formata da piccole frazioni e da cascine sparse tra le verdi colline, comprendeva anche i casolari dei Becchi che confinavano con Capriglio. Il cappellano era Don Calosso, che aveva rivolto a Giovanni l'invito di andarlo a trovare. Il ragazzo aderì e percorrendo due chilometri di strada, giunse di buon mattino a Morialdo. Quel giorno, una nuova speranza si accese nel suo cuore: finalmente avrebbe potuto studiare sul serio e sotto la guida di un insegnante dotto e paziente. (Nella stessa borgata andrà ad abitare con la sua famiglia Domenico Savio, dal novembre 1843 al settembre del 1853, nella casa Viale, e ora Pianta, poco distante dalla Cappella).
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Addossata alla chiesa di Morialdo c'era la casa canonica. Là avvenne il primo incontro confidenziale tra Giovanni e Don Calosso. Il buon sacerdote si rese subito conto di avere a che fare con un ragazzo di doti non comuni e di una straordinaria forza di volontà. Volle parlare con la madre (cf MB 1, 179s) e s'impegnò a dare lezioni al ragazzo. Quella casa divenne familiare al contadinello dei Becchi; anzi, poco tempo dopo quell'incontro accettò l'invito di stabilirsi nella canonica stessa, per attendere agli studi con maggiore assiduità (cf MB 1, 214).
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La chiesa officiata da Don Calosso era ed è dedicata a san Pietro. Per sdebitarsi almeno in parte dell'ospitalità e dell'insegnamento, Giovanni si prestò come sacrista e campanaro. Sulla porta di questa chiesa Giovanni aveva incontrato per la prima volta il chierico Cafasso. Essendo la sagra della borgata si era offerto per accompagnarlo a vedere la festa, e da lui ebbe in risposta la storica frase: Gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa (cf MB 1, 279). Don Giuseppe Cafasso sarebbe poi diventato suo direttore spirituale e uno dei suoi più grandi amici e benefattori (ci MB 1, 186).
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Nella sua povertà e semplicità, essa vanta grandissimi privilegi che non ebbero cattedrali illustri e artistiche. Vennero a pregare e la frequentarono tre grandi santi: il Cafasso, il Savio e Don Bosco. Nei quasi 11 anni che il Savio abitò a Morialdo, qui veniva a pregare e a servire la Messa al Cappellano dell'umile chiesetta.